Intervista

Ti ricordi come è nato il progetto di Flammes?

Dopo Le Château de Pointilly avevo in testa l’idea di un film dal quale emergessero i rapporti di una figlia col padre. Sade impregna  Le Château de Pointilly, dal quale deriva più o meno direttamente Flamme. Il punto di partenza dei due film è, per così dire, lo stesso: un padre ed una bambina, che poi cresce e diventa una giovane donna. E, come per caso, in entrambi i film il padre è interpretato dallo stesso attore, Dionys Mascolo (Xavier Grandes recita in entrambi l’oggetto delle fantasie). E poi, non so più come, mi è venuta l’idea di un altro personaggio: la precettrice. Avrei potuto iniziare una storia che avesse la forma di un triangolo, un triangolo amoroso, drammatico tra la figlia, il padre e la precettrice. Ma come se questo triangolo fosse in sé insufficiente, ho avuto la visione di un pompiere…

La visione?

Sì, la visione. Il pompiere è apparso. Sono stato il primo a sorprendersene. Mi ricordo molto bene, stavo scrivendo, steso sul mio letto come sempre, e l’immagine del pompiere si è imposta. È sorta. E la sua apparizione ha cambiato tutto. Tutto ha iniziato a muoversi, ad evolversi in un’altra maniera. E, soprattutto, il pompiere ha dato a tutto l’insieme un senso molto più interessante. Se fossi rimasto nel triangolo, mi sarei chiuso in uno schema tipico. O, ancor peggio, uno schema psicologico. Ed il pompiere è venuto a spazzar via ogni psicologia. A partire da lui e dalla follia che il suo vestito provoca avevo finalmente l’impressione d’avventurarmi in una storia interessante: un racconto immorale.

I tuoi pompieri, a parte Xavier, sono veri?

 

Ce ne sono di veri e di falsi. Quelli veri erano molto divertenti perché, benché non avessero mai recitato in vita loro, hanno capito tutto, e subito. Come se l’avessero fatto da sempre. Soprattutto hanno capito il sottinteso sessuale del racconto. Sapevano bene che stavamo raccontando una storia perversa. Per una volta che un film raccontava le fantasie che suscitano… I veri sono quelli che entrano e visitano la casa. Quello bello, che va da Caroline al posto di Xavier, era un attore che era anche modello di Saint Laurent: Jaime Santiago. Gli altri venivano dalla caserma più vicina.

Quando Barbara dice al pompiere di non muoversi, di “restare così”… A cosa mira questa messinscena?

 

Vuole ritrovare esattamente la prima visione che ha avuto del pompiere, quand’era bambina.Gli fa assumere la stessa posizione, lo mette in scena in modo che sia la replica esatta della prima visione. In quel momento la vita si mette ad imitare il sogno…

Il travestimento è la chiave del film?

 

Il film è feticista, apertamente. E la chiave di tutto il racconto si trova senza dubbio in questa frase, a due terzi del film, quando Xavier e Barbara si domandano che faranno se troveranno il coraggio di partire lontano… E Xavier, con voce timida, sottile, le dice: “Si può sempre recitare…”. Il loro dubbio è legittimo: se il personaggio che recita Xavier, non avrà più senso, e può darsi che lei non lo sopporterà… Lei lo sa, e anche lui. Allora a quel punto, come un indizio, si vede l’uniforme di Xavier, e lui può dire: “Possiamo sempre recitare… Che altro possiamo fare?” Il senso stesso del film risiede lì: al posto della realtà c’è il gioco, la recita, il travestimento, il feticismo del travestimento, e questo gioco rende tutto il resto sopportabile. Non c’è erotismo fuori dal gioco, dal travestimento. Il carattere proprio dell’erotismo è feticista. È molto personale (…).

Si direbbe che in te non vi sia una doxa, nessuna figura stilistica ti è interdetta…

 

È la scena che decide. Ha la sua verità, che presuppone come deve essere filmata. Bisogna aver fiducia nella scena e non approcciarla con uno stile stabilito, una griglia. Ogni personaggio deve essere ascoltato in modo particolare. Io do a tutti una possibilità. Non sono un dittatore. Forse perché sono troppo attaccato ai miei attori. Sono maniaco di tutto ciò che è plastico, so che ogni attore deve essere illuminato in un modo preciso. Ed io tendo a filmarli di modo che siano più belli possibile. Mi piacciono molto la fronte ed il naso di Dionys Mascolo, ecco perché spesso è di profilo. Caroline Loeb ha un’espressività molto marcata, e la filmo di faccia. Xavier Grandes è spesso a figura intera, poiché gli si addice. Pascal Greggory ha una silhouette molto armonica, con un viso che sta bene di tre quarti, leggermente inclinato.

Biette, Narboni, Daney, tutti i critici hanno parlato del tuo orecchio, della precisione con la quale dirigi le voci…

Questa precisione nasce da un clima di dolcezza che avevo instaurato durante le riprese. Alle prove, lasciavo fare, ed ero soddisfatto della dolcezza che emanava dalle voci, dalla loro unità, dall’alchimia che c’era tra esse. Quel che dirigevo erano piuttosto i silenzi. Chiedevo agli attori di contare fino a cinque fra la tal domanda e la sua risposta. Dirigevo, così, lo spazio tra le frasi. (…)

Flammes, l’hai sempre pensato a colori?

In quel momento il bianco e nero era la norma, ed il colore aveva qualcosa di esotico. Soprattutto nella sfera underground: Garrel, Akerman, Schroeter, Eustache giravano molto in bianco e bero. Warhol, a volte. Ma il bianco e nero non mi aveva mai veramente soddisfatto. Perché era una norma, ed io volevo il lusso simboleggiato dal colore. E perché il colore permette di giocare. Anche la mia pittura è molto colorata. Ma in Flammes non mi ricordo di aver desiderato o ricercato un colore particolare. Non ho chiesto a Caroline d’indossare questo o quel vestito. Poi, c’è il gioco con l’ombra. Quando ad esempio la precettrice dà un colpo alla porta col piede, per andare dalla sua camera a quella di Caroline, attraversa una piccola zona di buio. Thierry, che era tutto fuorché convenzionale non ha ritenuto interessante rischiarare quel punto, ed aveva ragione. È stata una sua scelta intelligente d’illuminare soltanto i personaggi e di lasciare molta ombra intorno ad essi. L’ombra è essenziale, è una materia con la quale si è persa l’abitudine di fare i film. (…)

C’è questa frase che il padre dice alla figlia nel prologo: “ Un pezzo del tuo sogno si è incollato al vetro”…

 

Mi piace molto l’idea che un sogno sia qualcosa che s’incolla. Le prime fotografie erano fatte su delle placche sulla cui superficie l’immagine era come incollata. La celluloide è anche una sorta di pelle, di superficie sulla quale s’incollano dei sogni. Io sono un cineasta onirico, mentirei se dicessi il contrario. (…)

 

Tratto da Adolpho Arrietta, un morceau de ton rêve…, di Philippe Azoury (Paris, Éditions Capricci, 2012)