PETER GREENAWAY: IL CINEMA COME FINE
di Luca Pacilio
Scrivere del cinema di Peter Greenaway è facile e difficile nello stesso tempo: è facile, colmo com’è il suo lavoro di motivi e temi, avendo il cineasta mescolato, con sapienza e irriverenza, la cultura classica britannica (e la sua propensione al gioco e all’umorismo) con tenaci quanto riconoscibili ossessioni tematiche, formali e strutturali; è difficile perché, come pochi altri, egli è stato, in questi anni, tanto generoso nel concedersi a spiegare la sua opera, quanto categorico nel fornirne una lettura precisa, una vera e propria interpretazione autentica che ha finito col disegnarla nelle sue esatte dimensioni, evidenziandone caratteristiche e intenti e riducendone, di conseguenza, il terreno della possibile esegesi.
Ciò è avvenuto perché Peter Greenaway non è solo un regista, ma un vero e proprio teorico di un modo alternativo di considerare il cinema, e i suoi film, oltre che opere da fruire in quanto tali, precise dimostrazioni di un ragionamento, di un modo peculiare di interpretare la Settima Arte, manifestazioni pratiche della necessità che essa cambi rotta; i lavori del gallese, allora, non sono mossi da un interesse a consegnarci una verità, non pretendono utopisticamente di rappresentare la realtà, si guardano bene dal lanciare messaggi. Essi sono esempi di un cinema impegnato a sondare, sperimentare, mettere in pratica e celebrare le proprie possibilità – quelle di un mezzo in continuo divenire e non staticamente crocifisso a delle formule inamovibili -, attraverso la costante esplorazione dei linguaggi e l’applicazione entusiasta dei nuovi ritrovati tecnologici. Un mezzo che diventa l’unico fine.
È impossibile, dunque, parlando della sua opera, prescindere da quanto egli ha dichiarato in questi anni, rappresentando, le sue parole, il viatico per comprendere questo tentativo – utopico forse, ma straordinariamente sincero – di sottrarre l’arte cinematografica alle pastoie conformistiche nelle quali si dibatte da più di un secolo, tentativo supportato da questo discorso militante che si è concretizzato in un manifesto, in una vera e propria dichiarazione di intenti.
Peter Greenaway si proclama cineasta disilluso da quest’arte – per come viene generalmente intesa – che, sempre di più, a dispetto di circostanze e tendenze contrarie che si manifestavano e si manifestano, ha continuato a predicare un credo e a radicalizzare un percorso, fermo nel sottolineare come certe convenzioni di cui il cinema – contemporaneo e non, commerciale e autoriale – si nutre siano diventate dei (falsi) assiomi: si è espresso allora contro la dittatura del testo, a favore del primato dell’immagine, contro lo strapotere degli attori.
Dichiarazioni quali Il cinema è morto, Abbiamo visto solo cento anni di teatro filmato, Se vuoi scrivere storie fai lo scrittore si sono susseguite come un mantra a puntellare un teorema che il suo lavoro, fuori e dentro la sala cinematografica, intanto andava a delineare.
Fin dagli esordi egli ha tradotto in pratica questo suo credo: contro la consequenzialità cronologica cui si consacra tutto il cinema narrativo, il regista ha opposto altri sistemi di collocazione e ordinamento della materia: si veda in questo intento il ricorso alle elencazioni (le biografie di The Falls, 1980, ad esempio), alle numerazioni (la scelta di un numero chiave attorno al quale strutturare il discorso filmico è presente in ogni suo titolo), all’alfabeto (Lo Zoo di Venere, 1985) o allo spettro dei colori primari (Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l’Amante, 1989). L’esigenza da cui muovevano questi procedimenti è stata sempre la stessa: dimostrare che il cinema non deve essere necessariamente costretto nelle maglie di una narrazione, ma, usando la narrazione come grimaldello inevitabile per portare il proprio discorso davanti al grande pubblico, piegarla a strumento per il conseguimento di un fine superiore: collocare il cinema in una logica di continuità con secoli e secoli di storia dell’immagine, sancire il suo carattere di arte in evoluzione.
La tassonomia esasperata viene legata anche a un discorso squisitamente poetico, popolato da un vero e proprio zoo di personaggi ricorrenti, dominati da Tulse Luper, un assai poco dissimulato alter ego: artisti visionari, ricercatori illusi, caratteri dominati da una spasmodica brama di organizzare la conoscenza e l’esperienza, di dominare lo scibile. Sforzi tanto ambiziosi quanto fallimentari: i racconti dei film di Greenaway narrano spesso di personaggi alle prese con un tentativo di costruzione di una cosmogonia che si scontra con l’inevitabile impossibilità di catturare il Caos, di racchiuderlo dentro uno schema. E ricorrente è anche il sottotesto sulla condizione dell’artista, del cineasta in particolare, che combatte per la sua opera e che per portarla a termine si scontra con gli ostacoli più vari: il disegnatore che in I Misteri del Giardino di Compton House (1983) deve superare le avversità contingenti all’organizzazione della messinscena (la meteorologia, la disposizione degli oggetti di scena), con i corollari del contratto, con l’insubordinazione dei soggetti dei quadri; Stourley Kracklite, l’architetto americano a Roma per una mostra su Étienne-Louis Boullée, che deve vedersela con un budget sempre più esiguo, la promozione dell’evento, i profittatori e i finanziatori che impongono all’allestimento una linea in contrasto con quella originale (Il Ventre dell’Architetto, 1987). E quella del contratto e delle condizioni che l’artista è costretto ad accettare in corso d’opera, la ritroviamo come costante in tutta la sua filmografia, compresi i due ultimi titoli dedicati ai maestri dell’arte olandese Rembrandt e Goltzius.
Impegnato da subito a diffondere una teoria che propugna la rottura con il passato come dogma centrale, fin dagli splendidi cortometraggi di inizio carriera il regista faceva deviare il discorso in ambiti inediti: così usava l’escamotage del falso documentario per poter ricorrere con facilità e con coerenza a forme e strutture differenti e poco praticate nella Settima Arte: grafici, mappe, diagrammi animati, interviste, lavori con la camera collegati al tipico linguaggio della burocrazia (statistiche, bollettini, catalogazioni), manifestando fin da allora insofferenza nei confronti dei modi tradizionali di interpretare l’intrattenimento sul grande schermo. Così da subito i suoi si affermano come film che non nascondono i loro artifici, ma li rivendicano, li pongono in evidenza: il pubblico non perde mai la coscienza di essere di fronte a una messa in scena, in essi non c’è psicodramma, non sono film costruiti perché nello spettatore scatti immedesimazione. In questo aspetto emerge l’approccio strutturalista dell’opera dell’autore che rifiuta recisamente l’illusionismo cinematografico e tutta la congerie di elementi atti a determinare la sospensione dell’incredulità, concentrando l’attenzione sulla struttura e sullo stesso procedimento produttivo dell’opera, mai su quello emozionale (I Misteri del Giardino di Compton House, ieri, come Goltzius & The Pelican Company, oggi): per Greenaway il film comunica, in primo luogo, il suo essere frutto di una creazione e la sua intima natura fittizia.
E da subito si manifestano i temi ricorrenti che mai abbandoneranno il campo, qualunque fosse la partita cinematografica da giocare: il Sesso e la Morte in primo luogo, da cui, come più volte asserito dal regista, derivano e dipendono tutti gli altri. E declinati nelle due macrotematiche una serie di ossessioni costanti: l’acqua (per le potenti suggestioni visive che riesce a creare), gli uccelli (retaggio di un padre appassionato di ornitologia e che domina i primi lavori), il corpo. Il corpo, nella sua fisicità, nella sua organicità, è sempre imprescindibile riferimento: in film che presentano costruzioni complesse, che sono oberati di metafore, di simboli, di riferimenti culturali disparatissimi, film concepiti secondo ragionamenti stringenti, in cui nulla è affidato al caso, imbrigliati in griglie di scintillante coerenza, in cui tutto risponde a una precisa logica rappresentativa, il corpo torna a rivendicare il suo primato su tutte le sovrastrutture intellettuali. Ed è lì: fisico e deperibile. Uomini e donne, nei film del gallese, sono spesso nudi, a volte in maniera sfrontatamente pretestuosa (8 Donne e Mezzo, 1999), esposti nella loro essenza carnale – oserei dire animale – e, in ultima analisi, mortale. Sensualità in quella nudità, erotismo? Certo, ma non necessariamente, più spesso pura e semplice fisiologia, come fisiologico è il mangiare, bere, soffrire, godere, copulare, evacuare di quei corpi. Il loro vivere, il loro morire. Sono il vero aggancio alla concretezza della materia, l’unica concessione realistica di un cinema che opera per astrazioni e che del realismo non sa cosa farsene.
Nudità che è anche citazione dell’arte classica che impregna di sé tutta l’opera cinematografica del regista. Regista che nasce pittore e che continua a ritenere la pittura l’arte suprema. Proprio per quell’intento di fare del cinema la naturale prosecuzione di secoli di arte figurativa, Greenaway continua, di film in film, a impregnare il suo discorso di contaminazioni che frettolosamente vengono definite citazioni, ma che in realtà sono richiami, aperture di finestre, lievi cortocircuiti temporali che hanno lo scopo di chiamare in causa lo spettatore, di estraniarlo dalla narrazione, di collocare quanto sta vedendo in un discorso visivo e testuale più ampio, derivino, tali suggestioni, da Piranesi, Vermeer, Tintoretto, Caravaggio o da vere e proprio icone contemporanee (la foto di Oliviero Toscani del neonato coperto di muco e sangue, vero motore ispirativo del grande masque di The Baby of Mâcon, 1999).
Affermare, e lo si è fatto, che il cinema di Peter Greenaway con il decisivo quanto incompreso The Tulse Luper Suitcases (2003) – sintesi ultima del passato e ricognizione di inaudita precisione sul futuro – avesse imboccato una strada nuova quanto incomprensibile e solipsistica, significa, allora, non aver colto la portata e il senso di quanto il cineasta aveva creato in precedenza. In Tulse Luper tutta lo sperimentare del passato trovava una clamorosa quanto esplosiva attuazione e lo stesso rifiuto del primato del testo veniva espresso attraverso le forme utilizzate: così in quella trilogia (che racchiude il sogno da sempre cullato di pervenire ad un’opera totale, collegandosi, come faceva, a lavori teatrali, installazioni museali, libri, persino a un gioco online) c’era narrazione, tantissima e talmente presente, talmente ostentata, talmente ossessiva, da venire di fatto negata nel suo eccesso, ciascuna linea narrativa venendo interrotta da un’altra, in un ribollente proliferare di trame principali e subordinate che, incrociandosi e cozzando di continuo, diventavano una sorta di ignorabile rumore di fondo. In questo senso il riportare sullo schermo i dialoghi dei personaggi, con tanto di didascalie, non è da leggersi come un’esaltazione della fabula, ma come il suo esatto contrario: la letterale messa in immagini della narrazione, dei suoi caratteri, della sua apparenza grafica. La narrazione diventava figura.
È il caso di ricordare che una delle ragioni che spinse il regista a girare in Giappone il film che si ispira a Le Note del Guanciale di Sei Shonagon (I Racconti del Cuscino, 1996) era l’ossessione per gli ideogrammi che sintetizzavano, in un unico segno, testo e immagine.
Greenaway in Tulse Luper tendeva a utilizzare finalmente tutte le risorse offerte dal cinema – figurative, musicali, letterarie, semiologiche – e a combinarle, per far sì che il senso si producesse attraverso un sistema di relazioni incrociate, piuttosto che attraverso una totalità contenutistica destinata a servire un ortodosso unicum narrativo, ad illustrare la famigerata storia. Ciò accadeva già ne Lo zoo di Venere, anche se in maniera meno estrema ed evidente, non avendo ancora a disposizione, il regista, le tecnologie necessarie per raggiungere questo obiettivo con le modalità desiderate.
Anche gli ultimi due film, Nightwatching (2007) e Goltzius & The Pelican Company (2012), che potrebbero suonare come semplici biografie cinematografiche, mettono in atto la stessa strategia, ponendo davanti alla fitta coltre dei loro intrichi complicatissimi, le immagini quale dato prioritario da cui far partire l’analisi, costringendo chi guarda (ma mai costrizione fu più dolce) ad abbandonarsi in primo luogo al piacere della visione e rendendo il dipanare della trama assai complicato (e infatti, e non è la prima volta, per la soluzione del whodunit di Nightwatching Greenaway gira una sorta di postilla: Rembrandt’s J’accuse). In secondo grado si può discutere dei temi, della costruzione della storia e, soprattutto, abbandonarsi alle riflessioni che da essi dipartono su nodi profondamente contemporanei. Così Nightwatching, dietro la vicenda paragialla legata al dipinto La Ronda di Notte di Rembrandt, parla di messa in scena e di regia, di cinema primordiale e futuro, della diffidenza nei confronti delle opere di avanguardia; in Goltzius, accanto al tema evidente del rapporto tra un artista e un committente (ancora), si discetta delle nuove tecnologie e di come queste, ai loro albori, si affermino e diffondano grazie alla pornografia (dalla pittura alla fotografia, dal cinema ad internet): l’erotismo e la sua rappresentazione divengono la parola d’ordine che consente e sancisce il passaggio da un’era ad un’altra.
E’ il metodo di Greenaway: sollecitare questioni culturali spinose e farlo attraverso film che sembrano puntare da tutt’altra parte (in questo caso la ricostruzione idealizzata di un’epoca e il biografismo – un biografismo tutto particolare, in quanto concede spazio non solo alle verità storiche, ma anche a tutto quello che non è possibile dimostrare come falso: così, quelli di Rembrandt e di Goltzius sono ritratti non rigorosi, ma sicuramente possibili; nessuno potrà dirli veri, ma nessuno potrà opporre fatti che ne dimostrino la falsità -).
Quindi non c’è contraddizione tra la generale posizione di distanza che Greenaway ostenta nei confronti della narrazione e il fatto che poi una narrazione esista sempre nei suoi film: essa viene incontro più alle esigenze dello spettatore che a quelle dell’artefice, è la colla (come l’ha definita lo stesso regista) che serve a collegare i vari apparati di cui consta il film. In realtà quello di Greenaway è un cinema disnarrativo (termine coniato da Alain Robbe-Grillet, autore dello script del film culto del cineasta, L’Anno Scorso a Marienbad di Alain Resnais, 1961), la cui lettura deve essere affidata in primo luogo all’immagine, a ciò che appare sullo schermo e la difficoltà di questa lettura non va vista come un ostacolo, ma come un invito esplicito a un mutamento di approccio rispetto al modo tradizionale di pensare ad un film, di avvicinarsi ad esso, di guardarlo e di ricostruirne il significato.