Il motivo per cui il remake di Il salario della paura (Vite vendute, 1953) di Henri-Georges Clouzot, ha questo titolo, è da ricercare nel percorso artistico di William Friedkin.
Il grande regista statunitense che quattro anni prima aveva diretto The Exorcist (L’esorcista) ripropone il tema della possessione, che continua anche in questo cult maledetto a contagiare i personaggi e la storia.
Sorcerer (titolo originale che significa emblematicamente “stregone) segna l’inequivocabile delirio di onnipotenza di un autore ormai giunto all’apice del suo successo, che crede ormai di potersi esimere dalle spietate regole del circuito cinematografico hollywoodiano, a cominciare dalla scelta (per alcuni del tutto azzardata) di girare questo kolossal lontano dagli Studio: Friedkin trascinò infatti l’intera produzione nella Repubblica Domenicana.
Lo stesso Friedkin dichiara:
“Apocalypse Now, Aguirre, Furore di Dio e il mio Il salario della paura sembrano in effetti aver sofferto dello stesso male. Sapete, la maggior parte dei registi ha un solo desiderio: quello di vivere sul filo del rasoio. Sapendo che un regista non ha sempre un controllo assoluto sulla propria creazione è evidente che egli ha forzatamente voglia di andare vicino al punto di rottura di una situazione data per provare al mondo di essere in grado di ritornare, all’ ultimo minuto, padrone del suo destino.”
Jackie Scanlon/ Juan Domiguez (Roy Scheider) rappresenta perfettamente questa attitudine.
Unico superstite di un quartetto di rapinatori, è ricercato dalla mafia perché nel corso della rapina è stato ucciso un sacerdote, fratello di un boss.
Victor Mason è un banchiere parigino responsabile del fallimento della propria banca del suicidio del fratello.
Kassem Amidou, fuggitivo proveniente da Israele, è scappato dopo avere preso parte a un sanguinoso attentato a Gerusalemme.
Angerman aguzzino nazista poi eliminato dall’ebreo Nilo (Francisco Rabal).
Oltre ad essere squattrinati, i quattro sono perseguitati dalla polizia del villaggio, per via delle leggi di immigrazione e sono dunque costretti ad aggirarsi sotto le mentite spoglie di identità fittizie.
La pellicola esprime un forte senso di precarietà, sempre in bilico tra il Bene e il Male (dualismo già presente in “Vivere e morire a Los Angeles“).
In preda alla disperazione accettano di trasportare su due autocarri antidiluviani delle casse di nitroglicerina, indispensabile per arrestare l’incendio di un pozzo petrolifero.
Il “salario della paura” è di 8 mila pesos per ciascuno dei quattro.
L’impresa ardua e spesso rocambolesca, costringe il gruppo a percorrere 200 miglia di foresta su di una pista infame e con un carico in condizioni pessime.
Serrano e Martinez finiscono in un burrone.
Nilo muore per le ferite infertegli da guerriglieri.
Juan Dominguez giunge alla meta e si assicura tutto il compenso ma nel villaggio sono giunti i killer che la mafia ha ingaggiato per farlo fuori.
Il camion, che si ferma a pochi metri dal traguardo, costringe l’uomo a trasportare a piedi la cassa di nitroglicerina necessaria per spegnere il pozzo.
Le fiamme dell’inferno e la possessione demoniaca, come da copione, lo trascinano ed insieme lo accompagnano verso un’ineluttabile fine.
Per l’uomo non rimane che il tempo per un ultimo valzer ballato con una donna precocemente invecchiata, mentre i passi della morte si avvicinano inesorabili verso di lui.